“La vista di una persona che soffre ci disturba. Ci mette a disagio, perché non abbiamo tempo da perdere per i problemi degli altri. Questi sono i sintomi di una società malata”


Qui sotto troviamo i paragrafi 63 – 76 dell’Enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre 2020.

63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito.

Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con

funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non

sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si

è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria

e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso

lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare

quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da

parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo

tempo.

64. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli?

Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente

dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti

nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci

siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci

toccano direttamente.

65. Aggrediscono una persona per la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla.

Spesso ci sono persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a

non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono

segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre,

poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà

fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi

sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.

66. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo

che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero,

costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come

legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del

bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico

e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha

mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che

passa, ma tempo di incontro». [57]

67. Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che

abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto

dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta

conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere


compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali

iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità

degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e

riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in

guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle

esigenze ineludibili della realtà umana.

68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si

circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale

dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo

nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo

lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci

scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.

Una storia che si ripete

69. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che

avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare

la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito.

Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la

strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo

davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a

distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme,

tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito,

qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.

70. È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente

trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è

più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né

commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e

quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che

distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre

etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le

ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale,

di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo

dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito

o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.

71. La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e

politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e

internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada.

Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative, come ad esempio: che cosa sarebbe stato

di quell’uomo gravemente ferito o di colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero

trovato spazio nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la

parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società

degna di questo nome.


I personaggi

72. La parabola comincia con i briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione

già consumata. Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo

verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre

dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e

divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona ferita a terra per correre ciascuno a

ripararsi dalla violenza o a inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre

divisioni inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri intestini?

73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa

pericolosa indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di

una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno triste riflesso di

quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra

loro. Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe

guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in alcuni

Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della loro cultura, e un vivere con lo

sguardo rivolto al di fuori, come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro

posto. Così si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il

loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal loro orizzonte di

interessi.

74. In quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone

religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di

speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a

Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia

può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la

fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica

apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con grande chiarezza tale sfida

che si presenta ai cristiani: «Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo

quando è nudo. Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire

il freddo e la nudità». [58] Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono

vivere la volontà di Dio meglio dei credenti.

75. I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada

guardando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per

prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello

stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità

del delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi personali o corporativi, e altri mali che non

riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare

sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del “tutto va male” corrisponde un

“nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal modo, si alimenta il disincanto e la

mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e di generosità. Far

sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così

opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle risorse e della

capacità di avere opinioni e di pensare.


76. Guardiamo infine all’uomo ferito. A volte ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra

sul bordo della strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e carenti,

o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e all’interno. Infatti, «nella società

globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente:

sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona

che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso

all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi». [59]


Note

[57] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27

aprile 2017, p. 7.

[58] Homiliae in Mattheum, 50, 3-4: PG 58, 508.

[59] Messaggio in occasione dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – USA (10 febbraio

2017): AAS 109 (2017), 291.

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