“La vista di una persona che soffre ci disturba. Ci mette a disagio, perché non abbiamo tempo da perdere per i problemi degli altri. Questi sono i sintomi di una società malata”
63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito.
Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con
funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non
sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si
è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria
e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso
lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare
quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da
parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo
tempo.
64. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli?
Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente
dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti
nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci
siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci
toccano direttamente.
65. Aggrediscono una persona per la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla.
Spesso ci sono persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a
non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono
segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre,
poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà
fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi
sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.
66. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo
che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero,
costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come
legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del
bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico
e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha
mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che
passa, ma tempo di incontro». [57]
67. Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che
abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto
dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta
conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere
compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali
iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità
degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e
riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in
guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle
esigenze ineludibili della realtà umana.
68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si
circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale
dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo
nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo
lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci
scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.
Una storia che si ripete
69. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che
avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare
la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito.
Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la
strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo
davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a
distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme,
tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito,
qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.
70. È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente
trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è
più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né
commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e
quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che
distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre
etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le
ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale,
di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo
dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito
o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
71. La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e
politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e
internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada.
Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative, come ad esempio: che cosa sarebbe stato
di quell’uomo gravemente ferito o di colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero
trovato spazio nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la
parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società
degna di questo nome.
I personaggi
72. La parabola comincia con i briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione
già consumata. Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo
verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre
dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e
divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona ferita a terra per correre ciascuno a
ripararsi dalla violenza o a inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre
divisioni inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri intestini?
73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa
pericolosa indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di
una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno triste riflesso di
quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra
loro. Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe
guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in alcuni
Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della loro cultura, e un vivere con lo
sguardo rivolto al di fuori, come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro
posto. Così si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il
loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal loro orizzonte di
interessi.
74. In quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone
religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di
speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a
Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia
può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la
fede che favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di un’autentica
apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con grande chiarezza tale sfida
che si presenta ai cristiani: «Volete onorare veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo
quando è nudo. Non onoratelo nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire
il freddo e la nudità». [58] Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono
vivere la volontà di Dio meglio dei credenti.
75. I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada
guardando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per
prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello
stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità
del delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi personali o corporativi, e altri mali che non
riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare
sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del “tutto va male” corrisponde un
“nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In tal modo, si alimenta il disincanto e la
mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e di generosità. Far
sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così
opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle risorse e della
capacità di avere opinioni e di pensare.
76. Guardiamo infine all’uomo ferito. A volte ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra
sul bordo della strada. Ci sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e carenti,
o rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e all’interno. Infatti, «nella società
globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare dall’altra parte che si pratica abitualmente:
sotto il rivestimento del politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona
che soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche un discorso
all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi». [59]
Note
[57] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27
aprile 2017, p. 7.
[58] Homiliae in Mattheum, 50, 3-4: PG 58, 508.
[59] Messaggio in occasione dell’Incontro dei movimenti popolari, Modesto – USA (10 febbraio
2017): AAS 109 (2017), 291.