Predicare la parola sconosciuta


Dima ci ha inviato (e tradotto anche in ebraico) un articolo di Mons. Robert Barron, Vescovo ausiliare di Los Angeles.

Circa quindici anni fa, ho preparato un corso facoltativo per il Mundelein Seminary che ho intitolato: “La Cristologia dei Poeti e dei Predicatori”. In questo corso, ho cercato di esplorare il modo piu’ espressivo e non tanto tecnico, della tradizione cattolica di presentare la persona di Gesu’. Ho studiato le opere letterarie di Dante, Gerard Manley Hopkins, e G.K. Chesterton, e ho anche studiato in dettaglio le prediche dei piu’ grandi maestri tra i quali: Origene, Agostino, Crisostomo, Bernardo, san Tommaso, Newman, e Knox. Quello che mi ha colpito fortemente e che, lo confesso, mi ha portato ad un ripensamento delle cose in profondita’, e’ stato questo: nessuno di questi personaggi – dalla fine del secondo secolo al XX secolo – le cui omelie sono prese in considerazione come esempi da imitare, ha predicato nel modo come mi e’ stato insegnato di fare.

Col passare degli anni, ho ripercorso la mia formazione teologica e pastorale avvenuta negli anni successivi al Concilio Vaticano Secondo. Le parole d’ordine del tempo erano “rilevanza” e “esperienza”. Praticamente ogni insegnante e capo della Chiesa di quel tempo insisteva sul fatto che il nostro linguaggio teologico era diventato irrilevante al mondo moderno e che dovevamo trovare, di conseguenza, un modo per mettere la Bibbia in relazione con l’esperienza umana. In linea con le intuizioni che risalgono almeno agli inizi del 19° secolo all’interno del protestantesimo, ci siamo sentiti obbligati a impegnarci in un grande “ progetto di traduzione”, che trasformava il mondo oscuro e sconcertante delle Scritture nel linguaggio e nella concettualita’ del nostro tempo. Le conseguenze di questo cambiamento di predicazione erano ovvie. Le omelie devono contenere riferimenti di esperienze reali vissute dai fedeli, storie e accenni culturali, e avere anche una buona dose di umorismo. Ora cercate di non fraintendermi: l’enfasi del periodo post-conciliare non e’ stata del tutto fuori luogo, e le omelie di quel tempo non erano del tutto male, anzi, erano davvero molto buone se viste nel contesto della grande tradizione. Ed e’ il caso che nessuno dei grandi maestri predicatori riveriti dal cattolicesimo ha mai predicato in quel modo.

E allora come hanno predicato? Hanno portato i loro ascoltatori/lettori in un viaggio dentro il mondo piuttosto strutturato della Bibbia. Sapevano che le Scritture aprono il sipario su un mondo di recitazione ricca di caratteri peculiari che fanno e dicono cose anomale e sorprendenti. E hanno capito che attraverso tutti i meandri della storia biblica, il personaggio piu’ strano e inquietante di tutti era il Dio di Israele. Per comprendere questi personaggi e cogliere il nocciolo della storia, bisogna entrare nella giungla della Bibbia con pazienza e sotto la direzione di un esploratore esperto e astuto. E questo e’ proprio il ruolo del predicatore: essere un mistagogo, un’abile guida attraverso la foresta intricata della Scrittura.

Vi propongo un’analogia con alcuni testi letterari. Il romanzo di Umberto Eco, “Il Nome della Rosa”, e’ un misto meraviglioso di una storia poliziesca, un romanzo formativo, e dell’esplorazione metafisica, che inizia con una lunga descrizione della vita in un monastero benedettino del XIV secolo. A coloro che chiedevano se fosse necessaria questa lunga propedeutica, Eco rispondeva: “Il mio lettore deve passare attraverso una sorta di noviziato monastico se vuole capire la storia che sto cercando di raccontare”. Il capolavoro di J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”, che e’ una storia di avventura spensierata e un’evocazione della fede cattolica, nelle prime 75 pagine descrive la festa di compleanno di Bilbo Baggins. Quando gli hanno contestato questo punto, Tolkien ha risposto piu’ o meno allo stesso modo di Eco: il suo lettore, ha spiegato, deve imparare la lingua, i personaggi, le condizioni climatiche, la tipografia e la storia del suo mondo immaginativo, altrimenti non riusciranno mai a comprendere cio’ che lui vuole trasmettere. Anche se non lo ha mai detto esplicitamente, potremmo dedurre lo stesso principio usato da Melville dalla lunghezza (anche faticosa) dettagliata dei misteri della caccia alle balene nel racconto di Moby Dick. E potremmo riassumere il tutto dicendo che e’ necessario entrare nel mondo di un testo se si vuole comnprendere le tematiche del testo stesso.

Quindi un buon predicatore sviluppa i modelli di significato all’interno dell’universo biblico proprio per portare il nostro mondo all’interno di quell’altro. Dopo il Vaticano II, il problema fondamentale che riguarda gran parte della predicazione e’ che ha riportato indietro questo principio. Si tendeva a rendere la Bibbia accessibile alla nostra coscienza e, quindi, ad addomesticarla, spesso trasformandola in un debole eco di cio’ che potrebbe essere ascoltato anche in qualsiasi altro testo religioso o all’interno della stessa cultura. Ma se quello che il predicatore sta offrendo si puo’ trovare altrove, e spesso anche in forma piu’ avvincente, la gente lascerebbe la Chiesa in massa.

Il teologo metodista Stanley Hauerwas racconta una storia del suo tempo come Gifford Lecturer in Scozia. Era stato invitato a predicare nella Cattedrale di Edimburgo e la’ scopri’ una pratica che risaliva al periodo della Riforma: un sacrestano della Cattedrale aveva letteralmente chiuso Hauerwas nel pulpito dicendogli che non lo avrebbe liberato se lui prima non avesse predicato il Vangelo! Non condivido del tutto l’idea protestante di cio’ che e’ il Vangelo, ma mi piace l’intuizione che si nasconde dietro quella disciplina. Non dovremmo permettere ai predicatori di fuggire dalla densita’, complessita’ e dalle stranezze della Bibbia. Dovremmo rinchiuderli nei loro pulpiti fino alla completa spiegazione del mondo delle Scritture!

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